OLTRE IL VISIBILE, L'Asia di Ivano Bolondi
Omaggio a un Maestro della fotografia italiana, la mostra, la prima di queste dimensioni
dopo la sua scomparsa nel 2021, offre l’occasione di approfondire la conoscenza di Ivano
Bolondi negli ultimi quindici anni – di viaggi, dedicati in prevalenza ai paesi asiatici, e di
produzione artistica – che rappresentano, nella loro coerenza di stile, il compimento e
il risultato più felice di un lungo itinerario fotografico.
Negli anni settanta delle esperienze amatoriali e della progressiva propensione narrativa
nella fotografia in b/n, si avverte in Bolondi un’eco della fotografia umanista francese
– Cartier Bresson, in particolare – e degli Scianna e Berengo Gardin, epigoni italiani, ma,
agli inizi del decennio successivo, risulterà rilevante il richiamo consapevole al lavoro del
conterraneo e quasi coetaneo (era nato nel 1943) Luigi Ghirri.
Un approccio concettuale – situazioni e accostamenti ironici e surreali, scambio
percettivo tra naturale e artificiale nell’ambiente urbano, trasformazione degli spazi
riflessi nelle vetrate – da considerarsi come il primo scostamento dalla fotografia di
descrizione e di documentazione, anche se, come Ghirri per altro, Bolondi mantiene
in questo periodo un rigoroso rispetto delle regole della composizione.
Negli anni che seguono, le fondamentali, sempre più ricche, esperienze di viaggio
impongono scelte decise. Come nei versi, famosi, di Robert Frost (“due strade
divergevano in un bosco/e io – io ho preso quella meno battuta/e questo ha fatto
tutta la differenza”), Bolondi – lo ripeterà poi lui stesso in alcune interviste
– rispetto alla fotografia di viaggio che definisce “illustrativa”, sceglie invece una
fotografia “soggettiva”. Concetto quest’ultimo superficialmente traducibile in quello
passe-partout di “emozione”, come primum movens dello scatto: sembra più esplicativo
interpretarlo come risposta interiore del fotografo alla realtà percepita, quando l’occhio
non si quieta nella contemplazione, ma si muove intorno a una realtà complessa e
frammentaria; di qui, direi, la conquista da parte di Bolondi di una attitudine, di un
metodo, di un’ottica non di ricezione passiva ma di azione creativa.
D’altro canto, come hanno osservato alcuni critici, anche nelle tematiche del viaggio,
nei modi della conoscenza e della scoperta, l’appassionato interesse di Bolondi per
le persone e per il loro ambiente di vita si differenzia dalla tradizione etnografica e
fotogiornalistica: per lui è importante riconoscere e mostrare che gli individui dei vari
paesi visitati sono simili nei desideri e nei bisogni, anche se dissimili sono le abitudini
di percepire e rappresentare tali desideri e bisogni, i loro comportamenti e le loro ritualità.
A partire dalla metà degli anni novanta, si opacizza via via il portato referenziale delle
immagini, la funzione mimetico-riproduttiva della fotografia di Bolondi si riduce, una
strategia dell’autore per rafforzarne il senso e il contenuto; come affermava Sebald,
con parole che , a mio avviso, si attagliano perfettamente alla fotografia (e a quella di
Bolondi in particolare) : “L’arte necessita dell’ambiguità, della polivalenza, della
risonanza, dell’oscuramento e dell’illuminazione, deve insomma trascendere l’incontro_
vertibilità del dato di fatto”.
Restituendo questa pluralità del senso, la fotografia – come la pittura – può far intuire
l’invisibile nel visibile e, per usare un’espressione di Ernst Bloch, il “dorso delle cose”,
quello che si intravede al di là della loro superficie. Ecco che lo sguardo dell’autore
avvolge le cose visibili – per dirla con Merleau-Ponty – “in un rapporto di armonia
prestabilita, come se le sapesse prima di saperle” e la conoscenza è una
con-naissance, un “nascere insieme” di soggetto (che guarda, che fotografa) e di
oggetto (fotografato).
Queste concezioni si affermano con forza nel periodo conclusivo del percorso,
riferimento precipuo di questa mostra. Strumenti consolidati del linguaggio di Bolondi
sono l’articolazione dei punti di vista e l’uso di ottiche estreme, le variazioni manuali
di messa a fuoco e distanza focale, la ricerca del mosso, della sfocatura, del riflesso,
dell’enfatizzazione del dettaglio che, nelle prove migliori, creano un’altra realtà ottica.
Alcuni di questi elementi sono propri di un autore, citato talvolta da Bolondi, che ha
probabilmente avuto un’influenza importante sul suo lavoro, Ernst Haas, figura
maggiore della fotografia del Novecento, fin dagli anni cinquanta maestro
del mosso e della sfocatura, così come dell’uso espressionisticamente esasperato
del colore.
Infine, per una collocazione anche storica, si riportano qui alcune considerazioni di
Massimo Mussini, il critico più attento e competente dell’opera di Bolondi, scritte
in occasione della mostra “Quale Cina?”: “La sua ricerca, dunque, va piuttosto
allineata alle tendenze del post moderno, in cui l’aspetto concettuale prevale sul
momento rappresentativo, nel senso che il processo fotografico tradisce
le aspettative di chiarezza e realismo riposte dall’osservatore nella fotografia.
Queste immagini, al contrario, avviano un processo di spiazzamento conoscitivo
e propongono una lettura personale della realtà in cui “forma” e non “forma”
dialogano pariteticamente.”
Una mostra come questa potrebbe fornire indizi interessanti sulla odierna ricezione
delle immagini di Bolondi da parte dei fotografi e da parte del pubblico dei visitatori.
Chi scrive ritiene che immagini così potentemente connotate combattano il rischio
di “insignificanza strutturale” proprio di moltissime immagini di oggi, denotate
dall’intento documentale, iperdiffuse e iperconsumate, e che, in ambito fotografico,
valga ancora la pena di continuare la ricerca, in tutte le direzioni.
Perché, come ha scritto Javier Marías, “il mondo allora dipende dai suoi relatori… e
gli altri non finiscono mai”.
Alessandro Bencivenni
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